Simone Moraldi, Cinemafrica, 14 dicembre

Che cosa è il cinema. Domanda che ci si è posti fin dalle sue origini e, nell’arco di tutta la sua storia, per bocca dei suoi più illustri esegeti. Ma se chiedessimo alla gente comune per strada che cosa è il cinema immagino che molti risponderebbero, intuitivamente, che è un’arte che permette di raccontare storie. Il cinema di tutto il mondo racconta storie da più di cento anni e in Italia non facciamo ovviamente eccezione. Ma che succede quando, nel cinema italiano, l’Italia è raccontata da un regista che non è italiano e invece è, che so, etiope? Non è passato neanche mezzo secolo dall’ondata di decolonizzazione dei paesi del “Terzo Mondo”. Questo processo ha sprigionato l’enorme flusso di persone, vite, storie che da anni coinvolge la vecchia Europa in uno dei fenomeni più importanti e complessi dell’Età Contemporanea: la storia del pensiero se ne è impadronita fino ad arrivare al cinema. Parecchi studiosi hanno indagato l’atto di raccontare il mondo visto dagli occhi del migrante, di chi è arrivato in un posto senza prendere l’aereo ma affrontando quella barbara trafila della migrazione clandestina, la nuova banalità del male, il viaggio impossibile verso la speranza le cui infauste cifre la candidano, ormai, a nuovo flagello del Terzo Millennio. Cinema migrante, accented cinema, queste parole-chiave ci aiutano a raccontare la rivoluzione civile del “migrante che parla”. Come definirla se non come una rivoluzione civile, quella che succede quando si rovescia il tavolo del discorso pubblico, non vincolando più certe persone a una proterva subalternità – sono parole della filosofa indiana Gayatri Spivak – nei riguardi della sovranità e del potere ma impossessandoci della parola, degli strumenti e delle competenze atti ad esercitarla per sviluppare discorso pubblico.

La parabola autoriale di Dagmawi Yimer è l’incarnazione di questa parabola: regista attivo da pochi anni dopo il suo arrivo, nel lontano 2006, a bordo di un barcone. Non doveva essere molto diverso da quello che, nei giorni successivi al tragico 3 ottobre 2013, ha restituito privi di vita i corpi di centinaia di persone, annegate al largo di Lampedusa, un’isola diventata palcoscenico mondiale e pietra dello scandalo di uno dei fenomeni storici più cruciali e drammatici della moderna politica internazionale. Yimer, dopo aver denunciato la violenza estrema dell’atto migratorio (in Come un uomo sulla terra, realizzato insieme ad Andrea Segre e Riccardo Biadene), dopo aver indagato, con gli occhi dell’antropologo, la dimensione quotidiana di Lampedusa (con Soltanto il mare), continua, con la chiarezza e la semplicità che fin dall’inizio caratterizza coerentemente il suo stile cinematografico, un discorso politico già avviato con il suo episodio di Benvenuti in Italia e che con Va’ pensiero trova una degna prosecuzione.

Dietro la regia di Dag c’è una regia più grande. È la regia dell’Archivio Memorie Migranti, un progetto nato nel 2008 e sostenuto da Lettera27 e Open Society Foundations per promuovere e valorizzare il patrimonio del cinema migrante. AMM ha avuto un ruolo cruciale nell’avviare Dag alla sua carriera di regista, che lo ha portato a voler assumere un ruolo così politicamente controverso in seno al discorso pubblico nazionale. All’operazione Va’ pensiero hanno preso parte anche Premio Mutti-AMM e Cineteca di Bologna che fortemente lo ha voluto e sostenuto, a testimonianza di un disegno produttivo che l’Archivio sta tessendo con fatica e costanza già da diversi anni, imponendo un vero e proprio modello produttivo per fare cinema in modo sostenibile.

Ma Dag non è solo nell’operazione Va’ pensiero. Il film mostra con tutta la trasparenza possibile quanto la presenza di Mohamed Ba sia di peso all’interno del film. Ba, griot senegalese di cinquant’anni, arrivato in Italia 14 anni fa e residente a Milano, è l’esatto emblema di come l’integrazione possa diventare un atto politico: Ba lavora nelle scuole di Milano e provincia dove tiene laboratori sul tema dell’intercultura, ha iniziato a scrivere libri (il suo esordio si intitola Il tempo dalla mia parte ed è uscito da pochi mesi) e gira l’Italia con il suo spettacolo Invisibili. Nel 2009, Ba è stato vittima di un attentato neofascista, accoltellato all’addome. Due anni dopo, a Firenze, Mor e Cheikh, due venditori ambulanti senegalesi, sono stati gravemente feriti con arma da fuoco da uno squilibrato, militante di Casa Pound, mentre erano al lavoro al mercato di San Lorenzo. Nella medesima circostanza hanno perso la vita Samb Moudou e Diop Mor e un altro giovane, Moustapha Dieng, cui è dedicato il film, ha riportato una seria lesione alla spina dorsale.
Va’ pensiero intreccia queste storie, una delle quali aveva già trovato un primo sviluppo nell’episodio di Benvenuti in Italia firmato da Dag, in un percorso che unisce la denuncia politica e il racconto dei personaggi – soprattutto Mohamed Ba, un personaggio che viene fuori in tutta la sua bellezza. Il tutto è sapientemente “filtrato” dallo sguardo di Dag che è in grado di raccontare l’Italia, Milano, Firenze, gli edifici, le strade, le persone, mantenendo intatta una forza autoriale misteriosa: non sappiamo se venga dalle origini migranti di Dag, non siamo sicuri che il suo sia accented cinema, un cinema che “porta l’accento” di chi, da “straniero”, cerca di parlare la lingua del paese dove vive, ma sappiamo per certo che il film, come peraltro tutti i precedenti di Dag, trasmette una rara sensibilità nell’affrontare la materia del racconto. Questa leggerezza conferisce a un’operazione così politica un respiro poetico che rende Va’ pensiero un bellissimo film, nella sua struttura piana, nelle sue bellissime musiche – firmate da Veronica Marchi, Nicola Alesini, Madya Diebaté, Alvaro Lanciai -, nel suo linguaggio semplice e immediato.

Nell’anteprima romana al cinema Alcazar, Sandro Triulzi, uno degli “ambasciatori” di AMM, ha sottolineato come queste operazioni facciano certamente bene al cinema ma, soprattutto, facciano bene all’Italia. Ci fa bene, nel nostro fiero provincialismo, nella nostra rassicurante chiusura, nel nostro razzismo strisciante, vederci raccontati da uno “straniero” che si esprime e parla della nostra storia, della nostra cultura, del nostro paese con uno sguardo così personale. È per tutte queste ragioni che Va’ pensiero, oltre che un modo sano, bello, forte e dolce di fare cinema è per l’Italia un modo sano, bello, forte e dolce di fare rivoluzione civile.

http://www.cinemafrica.org/spip.php?article1420

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