In una scuola di Sesto San Giovanni, una maestra canta «Faccetta nera» e poi dichiara «Io non sono razzista». Un ritornello già sentito, ma forse il vero nodo della questione del razzismo italiano. Subdolo, sdoganato e raramente perseguitato come odio razziale. Quel nodo mai sciolto, lo coglie invece il regista Dagmawi Yimer in Và Pensiero. Storie di ambulanti, il suo ultimo film sulla strage razzista di Firenze, che sarà proiettato stasera al cinema Stensen di Firenze alla presenza della ministra Cécile Kyenge. Il 13 dicembre 2011, un “folle” Gianluca Casseri che si scoprirà poi dichiarato neonazista, sparò su degli ambulanti senegalesi nel cuore della città antica. Due morti: Samb Modou e Diop Mor. Fu uno choc per il Paese, ma ben presto il sipario è caduto. Come si vive quando sai che un uomo ha cercato di ucciderti per il colore della tua pelle?
Quali sono le cause di tale violenza razziale? Il regista etiope Yimer, pone le sue domande direttamente alle vittime. Dedicato a Moustapha Dieng, colpito alla spinna dorsale e ancora ricoverato in ospedale, il documentario ritrae la sopravvivenza degli altri due superstiti Mor Sougou e Cheikh Mbengue, dopo l’eccidio del mercato di San Lorenzo. Gli incubi, la paura, la difficoltà di vivere, di fare crescere i figli, di tornare ad aprire le bancarelle, e la questione mai sciolta: com’è possibile nel 21° secolo essere colpito perché di pelle nera?
Le loro storie s’intrecciano con quella di Mohamed Ba. Un’altra vittima di un tentato omicidio razziale, ma rimasto meno conosciuto. Il 31 maggio 2009, in pieno centro di Milano, questo cinquantenne senegalese riceve una coltellata nell’abdome da un uomo con la testa rasata. Alla fermata del tram, sotto gli occhi di tutti. Fu lasciato dissanguato per ore sul marciapiede, senza soccorso. E soprattutto senza mai che la Questura svolgesse un’indagine appropriata, classificando come la solita “lite tra extracomunitari”. Ancora oggi, questa vittima di aggressione razziale non ha ricevuto la cittadinanza onoraria dall’Italia (quella concessa ai tre senegalesi fiorentini). Altro sipario dell’informazione. Altro abisso.
Perché le ferite peggiori non sono quelle fisciche, sono quelle invisibili, morali. Psichiche diremmo noi, essere vittima di questo annullamento da parte di un altro essere umano. Che si ferma all’apparenza fisica, e non vede la tua irriducibile uguaglianza. Eppure «nessun uomo nasce razzista, ma lo diventa, perdendo gli affetti», racconta Ba, il favoloso cantastorie, narratore, attore, educatore che incanta bambini e adulti. E ti porta sul suo tappeto di parole, in Senegal, dove non esiste la parole straniero, e dove l’ospite è prezioso, lo si trattiene a casa più a lungo possibile ne dipende della reputazione, perché è un valore in sé.
Va’ pensiero, scena per scena ti conduce piano all’interno di quella violenza, con chi l’ha inspiegabilmente subita. Provoca con questa domanda: perché persiste oggi la violenza razziale? Questa malattia del nostro tempo. Il film-domanda di Yimer è molto poetico, dolce e fluido, con lo splendido montaggio di una professionista del calibro di Lizi Gelber. In 60 minuti, ti conduce in un crescendo drammatico nell’odierno cuore di tenebra. Per renderlo “visibile”.
Intanto, l’ideale è di «passare da vu-cumprà a vu-pensà», ironizza Ba sul palcoscenico, uscire dalla condizione di mere “braccia” per contribuire all’evolvere del interculturalismo. In una sala gremita di Trastevere, il griot Ba dice che quel film parla a quella parte “bella e sana” della società italiana, che « sa danzare con gli altri». «Quelle centinaia di cittadini che ci hanno “curato” con la lora vicinanza, perché io non chiedo compassione, voglio vicinanza».
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