Adesso vado a casa e lo guardo un’altra volta”, pensavo accompagnando Dagmawi in stazione dopo la proiezione all’Università, dove ai volti degli studenti si mescolavano i volti sconosciuti di quanti erano giunti nell’urgenza di vedere e ascoltare. Automatismi dell’epoca del dvd, di cui stavolta non dispongo. Ma ritrovo la tessitura audiovisiva, la ripercorro, inseguendo le tracce divenute memoria personale. Raccontare /raccontarsi significa confrontarsi con le forme dell’espressione, propria ed altrui. Lo sa bene Mohamed Ba, che di gesti, sonorità e parole nutre le sue performance e che ora cerca dolorosamente nella parola – nel suo fluire attraverso il corpo, nelle pause che decantano l’angoscia, nel ritmo che modula le emozioni – le vie per affrontare l’abisso della violenza subita: non per cancellarla ma per incarnarla altrimenti, per strapparla al dominio dell’aggressore, per trasmutarla poco a poco. Lo sa bene Cheik Mbengue, che teme il radicarsi fagocitante dell’immagine fissata dalla cronaca. E lo sa bene Mor Sougou che affida al corpo violato, ai movimenti faticosi della riabilitazione ciò che la voce non riesce a dire. Consapevole, la narrazione filmica si muove cauta e attenta, rispettando le forme del dire, cercando, a propria volta, immagini e suoni che restituiscano la materialità fisica del “dopo”, quando i riflettori dei telegiornali sono stati spenti, e il tempo per Mohamed, Mor e Cheikh stenta a sganciarsi da quell’allora, che non incide solo la carne ma risucchia l’anima e disgrega il tessuto relazionale. In controcanto si leva l’impasto sonoro generato dalle modulazioni delle lingue, dalle scansioni individuali dei racconti, dall’affiancarsi di ritmi e melodie che rimbalzano al di qua e al di là del Mediterraneo. Immagini e suoni capaci di restituire lo stupore, dischiudendo prospettive: è l’intreccio intermittente dei binari, è il librarsi del volo, nell’incessante trasmutazione delle forme; è soprattutto la restituzione dell’aria verdiana, che palpita nell’interpretazione intensa e inattesa di Veronica Marchi, capace di rivendicare il lamento di nuove oppressioni dal volto antico e i quotidiani vissuti di espropriazione inflitti da un’Italia che
si fa straniera.
Farah Polato
Dipartimento di Beni Culturali:
archeologia, storia dell’arte, del cinema
e della musica
Università degli Studi di Padova
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