Riceviamo e pubblichiamo*
Era un braccialetto di pelle bianco con cinque perline azzurre, come si usa da noi, in Senegal. Mio padre me l’aveva spedito per il mio decimo compleanno, e da quel giorno non me l’ero più tolto. Adoravo rigirarmelo tra le dita, giocherellarci. Ogni volta che papà mi mancava, ogni volta che le lacrime prendevano il sopravvento, quelle cinque perline azzurre erano la mia salvezza.
Mio padre, Moduo Samb, viveva a Firenze, in Italia. Era partito quando mamma era ancora incinta di me, e non era mai tornato in Senegal. Ogni anno mi mandava lettere commoventi, che tenevo in uno scrigno di legno sotto il mio letto. Le ultime parole erano sempre: “Tornerò, figlia mia. Te lo prometto. Tornerò.”
Non avevo mai dubitato del suo giuramento, mai pensato che potesse infrangerlo. Forse perché mamma continuava a ripetere che lui manteneva i suoi impegni, forse perché la speranza di riabbracciarlo, un giorno, era troppo forte per lasciare spazio all’incertezza.
Di lui conoscevo solo la voce, profonda e pacata. Mi telefonava spesso, chiamandomi “luce dei miei occhi”, e io avrei passato ore a raccontargli delle mie giornate. Ma non potevamo parlare più di venti minuti, perché lui era sempre impegnato nel mercato di San Lorenzo. Lavoro per te, mi aveva spiegato. Per permetterti di studiare, di costruirti un futuro, diceva. Ero grata di tutti i suoi sacrifici, di quelle giornate che passava a sopportare gli sguardi diffidenti della gente, “Piccolina, noi dalla pelle nera qualche volta non siamo accettati” sospirava. Raccontava di quelle notti in una piccola stanza al freddo, perché spesso la stufa si rompeva; di quei pasti ridotti all’essenziale. Me lo immaginavo in piedi ad offrire le sue tuniche e le sue sciarpe di finta seta a turisti curiosi, a lavorare il giorno intero, con una piccola interruzione, il tempo di prendere un panino al bar di fronte. Tutto per il mio futuro. Questo mi lusingava, mi spingeva a impegnarmi al massimo a scuola e a leggere libri in continuazione. Ma quanto avrei desiderato tornare a casa e sentirmi avvolgere dalle sue braccia forti e rassicuranti, ricevere un “Brava figlia mia” dalla sua voce profonda.
Avevo quelle parole, “Te lo prometto” stampate nella mente. Non smettevo mai di pensarci, era il mio desiderio più grande: che lui mantenesse il suo impegno.
Un giorno, mia madre ricevette una telefonata. Smise di cucire il mio grembiule blu che si era strappato e rispose. Dopo pochi secondi il suo viso si fece terreo e lacrime di dolore le inondarono gli occhi neri. Farfugliò qualcosa e riattaccò. Mi ricordo perfettamente il racconto di ciò che era accaduto, la voce di mamma rotta da singhiozzi che non riusciva a fermare.
Mio padre era stato assassinato da un esaltato razzista che aveva sparato contro di lui e contro un suo amico diversi colpi di pistola.
È arrivato da noi in una povera cassa di legno. L’hanno riaperta per farcelo vedere. La sua voce è spenta, il suo abbraccio non c’è. Ma stringe fra le mani cinque perline azzurre.
* Questo racconto è stato scritto da una studentessa del V Giannsio del Liceo Classico Mamiani di Roma poche settimane dopo l’eccidio di Firenze e pubblicato sul giornalino di scuola ‘Il dislessico’.
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