C’è chi sfida l’impossibile. Con la forza dell’intelligenza e della dignità che fugge l’autocommiserazione. Perché ha qualcosa di cruciale da raccontare e nulla da farsi perdonare. E il ‘cinema migrante’ dei 60 minuti di Va’ Pensiero, documentario di Dagmawi Yimer, ne è un manifesto. A maggior ragione per il tempo in cui si mostra, nei giorni cioè del secondo anniversario della strage del mercato di san Lorenzo, a Firenze (13 dicembre 2011). Quando la 357 magnum di Gianluca Casseri, neonazista toscano, spara nel mucchio dei “diversi”, degli ambulanti senegalesi, spegnendo sul colpo le vite di Samb Modou e Diop Mor e segnando per sempre quelle di chi avrà la fortuna o la maledizione di sopravvivere. Quelle di Sougou Mor e Mbengue Cheik, che di Va’ Pensiero sono appunto protagonisti.
Dagmawi Yimer ci porta oltre quella linea dove normalmente ci fermiamo. Nei giorni, nei mesi intollerabili del “dopo”. Quando la luce della cronaca si spegne, il silenzio annacqua la memoria e la vittima dell’aggressione razzista rimane da sola sul lettino di ospedale della riabilitazione o sulla malinconica panchina di un parco, a fare i conti con le indelebili cicatrici del corpo, carne deforme e tumefatta dal piombo di un proiettile a frammentazione e con quelle, peggiori, dell’anima. Condannata alla maledizione del ricordo della propria diversità (perché è quello il motivo per cui si è stati scelti dalla violenza) e a quella della paura che quel che è accaduto potrebbe accadere ancora. All’improvviso. Senza alcun segno premonitore. In pieno giorno, di fronte agli occhi di tutti.
Le voci, i volti di Sagou Mor e Mbengue Cheik ci guidano in questo abisso di cui si fa voce e corpo narrante Mohamed Ba, 50 anni, senegalese come loro. Ba è un griot, è «colui che ha il dono della parola e tramanda le memoria del gruppo». È poeta e cantastorie, attore, educatore, mediatore. Un musulmano che crede nella diversità come ricchezza, nella tolleranza. E che, in una scuola di Sesto san Giovanni dove è chiamato a trasmettere ai bambini gli anticorpi che li difenderanno dalla peste del razzismo, smonta con un sorriso la provocazione di una maestra che gli fa ascoltare la suoneria scelta per il suo cellulare, Faccetta nera.
Che crede negli esseri umani, nella forza di ciò che li rende uguali, almeno fino a quando, anche lui, non è vittima, nel centro di Milano, di una coltellata vigliacca che il 31 maggio del 2009 vorrebbe ucciderlo insieme a quello in cui crede e per cui si batte. Una coltellata inferta da una mano bianca ma su cui nessuno riterrà di dover indagare, liquidata come faccenda tra “balordi” e diversi.
«Ho conosciuto Ba nel 2010 — spiega Ymer — l’idea del film era cominciata con lui, costruita su di lui e sulla voglia di dare voce alle vittime che spesso decidono di non denunciare neanche la violenza di cui sono state oggetto. Perché questo significa una seconda umiliazione. Avevo cominciato le riprese nel 2011. Poi, è arrivata la strage del mercato di san Lorenzo, a Firenze. Allora io e Ba ci siamo fermati. Ho aspettato sei mesi. Il tempo della convalescenza di Mor e Cheik, necessario a costruire con loro un rapporto di fiducia e a convincerli del perché la storia del loro “dopo” andasse raccontata». Naturalmente non basta aver qualcosa da dire per poterlo fare. E in un Paese come il nostro questo vale ancora di più per il cinema migrante.
La storia della produzione di Va’ Pensiero diventa così l’altro capitolo della sfida. E dura 24 mesi. Per quanto low-budget sia il film (45 mila euro), per girare Dagmawi ha bisogno di fondi che non ha. Ma che non rinuncia a cercare. Nel 2011, il soggetto che ha scritto vince i 15 mila euro del premio “Mutti”, promosso dalla Cineteca di Bologna e dalle associazioni “Officina Cinema Sud-Est” e “Amici di Giana”, l’unico premio di produzione in Italia per il cinema migrante. Un primo passo per colmare il vuoto di contributi pubblici che esistono in altri paesi dell’Unione come Inghilterra (con l’”Arts Council” e gli investimenti di canali come Channel 4) e Germania (ZDF). Tuttavia un passo non ancora sufficiente. Arriva così il sostegno della Fondazione lettera27 e quello dell’Open Society Foundations di Soros. Fino a quello decisivo dell’Archivio delle Memorie Migranti, una piccola associazione battezzata due anni fa dall’africanista Alessandro Triulzi. Arrivano l’impegno nel montaggio di Lizi Gelber (produttrice associata del meraviglioso documentario di Jonathan Demme The Agronomist) e quello nella colonna sonora del sassofonista romano Nicola Alesini, del griot senegalese Madya Diebaté, di Veronica Marchi (Targa Tenco nel 2005), che ha reinventato l’aria di Verdi che dà il titolo al film.
Ora, a Va’ Pensiero mancano solo il pubblico e una distribuzione che non lo renda un racconto clandestino.
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