Vanessa Lanari, conversazione con Dagmawi Yimer, Doppio Zero

Ecco alcuni stralci della lunga intervista di Vanessa Lanari, direttore artistico del Festival del Cinema africano di Verona, a Dagmawi Yimer, pubblicata dalla rivista online Doppiozero http://www.doppiozero.com/materiali/odeon/va%E2%80%99-pensiero-storie-ambulanti

V.L.: Raccontaci come è nata l’idea per questo progetto, Va’ Pensiero, dove metti in relazione due storie e eventi diversi, la storia di Mohamed Ba a Milano e di Mor e Cheikh a Firenze.
D. Y.: Inizialmente il progetto era di raccontare Milano e i suoi angoli, oscuri o nascosti, attraverso la storie di Mohamed Ba. Mentre ero già partito con le riprese a Milano è avvenuta la strage di Firenze che ha scioccato me come tanti altri e ho sentito la necessità di includerla nel mio progetto, perché come spesso accade la cronaca non ha dato una giusta copertura alle vittime di piazza Dalmazia e S. Lorenzo.

V.L.: Hai spesso dichiarato, parlando di Va’ pensiero e delle tue opere precedenti, che è importante raccontare le storie degli immigrati in Italia, cambiando la prospettiva e il punto di vista. Secondo te, cambiare il punto di vista e raccontare in prima persona le proprie storie in che modo contribuisce a cambiare l’immaginario sull’Africa in Europa?
D. Y.: Cambiare il punto di vista vuol dire uscire dall’essere l’oggetto della narrazione e diventare ‘proprietario’ della propria storia. Vuol dire anche non aspettare la ‘traduzione’ della storia. Infatti, nel processo di ‘traduzione’ attraverso cinema, scrittura, teatro e altre forme artistiche si tende a non dare un racconto fedele. Raccontare l’immigrazione degli africani in Europa credo aiuti a costruire/decostruire l’immaginario africano dell’Europa, più che cambiare l’immaginario sull’Africa in Europa. Se si vuole cambiare l’immaginario sull’Africa in Europa non c’è bisogno necessariamente di raccontare l’immigrazione, bisogna piuttosto raccontare l’Africa in Africa. Perché dico questo? L’immigrato africano che vive qui certamente fa parte di una cultura altrui ma è per lo più uno specchio della società in cui vive (l’Europa) e non di quell’Africa che ha lasciato. Questo perché il suo essere è modellato dalle leggi, dal modo di vivere, dalla cultura e la mentalità della società in cui si trova.
V.L.: Negli ultimi anni, sono aumentate le produzioni di film che parlano di immigrazione in Italia. Cosa pensi dell’approccio dei registi italiani che trattano di questo tema?
D. Y.: Secondo me ‘lo sguardo’ si riferisce sulla sensibilità dell’approccio del documentarista verso una storia che non necessariamente ha vissuto di persona, ma riesce a co-raccontare attraverso un mezzo che è il cinema, a restituire con dignità, in primis nei confronti del protagonista della storia. Un regista che ha un’esperienza migratoria non deve necessariamente raccontare l’immigrazione, così come il tema dell’immigrazione può essere affrontato da un regista italiano. La differenza non dipende solo da chi sta raccontando ma da come sta raccontando. Se, come si vede nel cinema italiano, l’immigrato rimane etichettato in base all’immaginario di un italiano medio, il regista ha fallito perché non ha raccontato qualcosa di nuovo ma una stessa minestra in forma diversa. Non è per niente scontato raccontare l’immigrazione. Ben venga che l’immigrazione attiri di più il mondo del cinema. Ho molto timore però che il cinema possa rafforzare ancora di più i pregiudizi e gli stereotipi. Insomma, bisogna raccontare le persone e non solo la loro provenienza da una ‘cultura’ altra, un aspetto che deve essere (se c’è bisogno) secondario. Non esiste un film sull’immigrazione, se non come un raccontare le persone che magari appartengono a quella categoria che viene chiamata ‘immigrati’. Allo stesso tempo però possono appartenere anche ad un’altra categoria. Ad esempio: giovane, atleta, attore, regista, medico, operaio, genitore, imprenditore…
V.L.: Che cosa ti lascia perplesso invece rispetto alla comunicazione che riguarda gli stranieri e gli immigrati ad opera dei media italiani?
D. Y.: I termini e le associazioni che si usano per descrivere l’immigrato spesso sono dispregiativi. La presenza dell’immigrato risalta solo e spesso negli aspetti negativi legati al reato, al numero di arrivi di Lampedusa… tutto questo rivela l’incompetenza dei giornalisti sull’immigrazione. Rivela anche il degrado etico del mestiere che si chiama giornalismo.

V.L.: Hai dichiarato che per te sarebbe importante riuscire a diffondere le tue opere in vari paesi africani e in particolar modo in Etiopia. Quali sono le cose che vorresti raccontare e trasmettere rispetto al falso mito dell’Eldorado in Occidente, che continua ad alimentare la sofferenza di molti migranti africani, una volta arrivati in Europa?

D. Y.: I miei lavori non devono essere una pura propaganda per chi decide di partire da ogni angolo del mondo ma semplicemente una decostruzione dell’immaginario africano nei confronti dell’Europa: raccontare anche ‘l’Europa dei migranti’, cioè rendere l’africano più informato e pronto se è forzato o ha scelto di lasciare l’Africa.

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