Va’ pensiero. Il nuovo viaggio nel mondo degli immigrati di Dagmawi Yimer
Storie di immigrazione, di fatica e di tragedie che si intrecciano nel film Va’ pensiero di Dagmawi Yimer, presentato in anteprima, al palazzo Liviano di Padova.
I fatti e il film.
Il 31 maggio 2009 Mohamed Ba, attore ed educatore senegalese di 50 anni, viene accoltellato a Milano, in pieno giorno, mentre aspetta il tram. Il 13 dicembre 2011, un estremista di destra uccide Sam Modu e Diop Mor e ferisce altri uomini senegalesi mentre stanno compiendo il loro lavoro tra le bancarelle del mercato di piazza Dalmazia. Tra questi Mor Sougou e Cheik Mbeng, i quali in questo film, per la prima volta, possono e riescono a raccontare questa vicenda.
“Attrezzatevi per un lungo viaggio nel mondo, spesso nascosto, dei migranti.” Sono le parole di Mohamed Ba, tratte da uno dei suoi spettacoli teatrali, che accompagnano l’inizio del film di Yimer. Un viaggio che ha il compito, semplice e difficile allo stesso tempo, di mostrare una faccia del nostro paese che si tenta di tenere nascosta. Uno sguardo dolce su una realtà cattiva. Nessuna storia merita di rimanere invisibile e sconosciuta. Tutti hanno il diritto di raccontarsi. Dagamwi l’ha capito e grazie alla sua sensibilità riesce a far emergere dal racconto dei protagonisti le loro paure, i loro timori e il loro coraggio di continuare a vivere in quella che è diventata la loro nuova casa. Un documentario in cui il racconto si alterna a immagini di fiumi, a sguardi sulle città e al ritratto di persone che vivono nascoste mentre meritano di essere messe in luce. Un percorso visivo semplice e vivo, capace di trasmettere forti emozioni.
Dagmawi Yimer è un regista etiope, nato ad Addis Abeba nel 1977 e arrivato in Italia sbarcando a Lampedusa, insieme a molti altri compagni nel 2006. Arrivato a Roma inizia, quasi per caso, un corso di video-narrazione e scopre il mondo del cinema. Non conoscendo bene la lingua italiana scopre nella macchina da presa il mezzo migliore per riuscire a esprimersi. Inizia da qui un percorso che lo ha portato a realizzare numerosi documentari in cui mostra e denuncia realtà collegate al mondo degli immigrati in Italia. Tra questi vanno ricordati Come un uomo sulla terra (2008), C.A.R.A. Italia (2010) e Soltanto il mare (2011).
La reazione del pubblico.
Dopo la proiezione del film, a seguito di un lungo applauso da parte dei presenti che hanno riempito l’aula, si è svolto un dibattito in cui sono state molte le domande fatte a Dagmawi Yimer. È difficile non rimanere colpiti dalle immagini di questo film, in cui oltre a una forte esigenza documentaristica è presente anche una ricerca di stile e immagini poetiche, come le danze dello stormo di uccelli sopra Milano.
“Perché ha iniziato a fare cinema?”
“Ho iniziato per caso un corso di video-narrazione e non conoscendo molto bene la lingua italiana sono riuscito a trovare nella macchina da presa un ottimo modo per comunicare. Un interesse nato in particolare per un’esigenza, utilizzando le immagini per potermi esprimere. Era un corso molto semplice, come se qualcuno ti desse in mano una penna dicendoti: questa scrive, scrivici quello che vuoi. Molti si sono trovati spiazzati ma io ho continuato. Ho sperimentato la realizzazione di video partecipati girati insieme ad altre persone che sono arrivate in questo paese come me. Ho deciso di portare avanti questo lavoro perché ancora al giorno d’oggi c’è pochissima consapevolezza sugli immigrati.”
“Come mai all’interno del film non hai inserito nulla sull’attentatore di Firenze?”
“Non c’è niente su di lui perché le testate hanno descritto bene chi fosse. Non ho voluto concentrarmi su un fatto singolare, dando un nome e un volte preciso. Ci sono discorsi molto più grandi dietro quella persona. Su di lui si è detto tutto e niente è stato detto sulle vittime. Perché i giornalisti si sono comportati così? Forse per pigrizia o per mancanza di voglia di impegnarsi su storie che devono essere raccontate. Grazie alla concentrazione dei media su di lui, l’attentatore ha superato anche da morto le persone che ha ucciso e quelle che ha ferito, e questo non è giusto.”
“Le testimonianze di Mor e Cheik sono state fatte e mantenute nel film nella loro lingua madre, come mai?”
“Penso che la cosa migliore sia permettere a queste persone che raccontano la loro storia di poterlo fare sentendosi il più possibile a proprio agio, e parlare nella propria lingua è un elemento importante.”
“All’inizio del documentario Come un uomo sulla terra, dici che hai lasciato la tua terra chiedendoti “Che ci faccio in questo paese?”. Una volta arrivato in Italia, dopo il lungo e faticoso viaggio, vedendo l’accoglienza che viene riservata agli immigrati e le condizioni in cui vivono, non ti sei posto la stessa domanda?”
“No, la ricerca per la quale sono uscito dal mio paese sono riuscito a trovarla qui. L’Italia mi ha dato la libertà di esprimermi attraverso il cinema e mi ha dato quello che prima mi era stato negato. Ovviamente c’è un prezzo che va pagato, ma niente è da buttare e niente è da lasciare. Il mio è un viaggio continuo. Si dice che forse un viaggio finisce nel momento in cui si torna da dove si è partiti. Questo devo ancora scoprirlo.”
“Vorresti continuare questo percorso documentaristico o magari ti piacerebbe anche dedicarti al cinema narrativo?”
“Le persone partono dal presupposto che essendo un migrante devo raccontare la storia dell’immigrazione. Non è solo così. È importante tirare fuori queste storie invisibili ma c’è anche la voglia di superare questo momento. Dentro di me adesso c’è il regista e c’è anche l’immigrato. Una specie di conflitto individuale. Comunque per me il cinema include tutto. Il dibattito sul fatto se i documentari sono cinema o no dovrebbe già essere concluso. E’ una realtà che fa assolutamente parte del mondo cinematografico. Per adesso vorrei affermare un altro passo nel mondo del documentario ma mi piacerebbe anche affrontare il mondo narrativo, un giorno.”
Elisa Biagiarelli
Seguici!