Paola Pastacaldi, Un documentario da vedere, 13 marzo

Giorni fa al cinema Anteo di Milano (ma ha già girato e sta girando anche in altri città) è stato presentato “Va’ pensiero. Storie ambulanti” di Dagmawi Yimer, un documentario che dà voce a degli africani sopravissuti a tre attentati razzisti, un tema agghiacciante che forse non vorremmo riascoltare né rivedere. Ma questo documentario finalmente ha la capacità di raccontarci la storia vista dalla parte di chi è stato ferito con tutte le voci in campo, anche quelle degli italiani, il tutto con una grande dose di poesia e di umanità, che ci aiuta come spettatori a sentirci capaci di un riscatto forse nel reale, nella vita di tutti i giorni. E’ un documentario che dovrebbero vedere tutti gli italiani, giovani e anziani, che dovrebbe girare in tutte le scuole, in tutti i cinema, ma anche nelle nostre case grazie alla tv. Il motivo? Non è uno solo, ma sono davvero tanti e tanti e tanti i motivi. Piccoli e grandi. Quante volte cerchiamo le parole per raccontare il razzismo e arginare la sua forza devastante. In questo documentario c’è tutto quello che serve per capire e anche qualcosa di più sia su di noi che di loro, gli altri, gli extracomunitari, i vu cumprà, come si diceva una volta. Nel documentario ci sono le nostre città importanti, Milano, Firenze, Verona, la loro bellezza e la loro vita, c’è anche un inno famoso e struggente, quello di Verdi che viene trasposto con una notevole intuizione dagli ebrei prigionieri in Babilonia alle migrazioni contemporanee, come autentiche e nuove tratte di schiavi.

Nel documentario ci sono le loro paure ma anche le nostre paure, le nostre insicurezze. C’è chi mette la musichetta di Faccetta Nera nel cellulare e forse non si rende nemmeno conto di tutta la sua valenza storica e razzista. Quella delle leggi razziali del 1938. Ma il primo motivo per vedere questo documentario è legato al nome del regista, alla sua storia che da sola è una notizia, perché da sola racconta i risvolti complessi di una tragedia umana, quale quella degli sbarchi con i barconi dall’Africa, ultimamente soprattutto dall’Eritrea. Purtroppo le immagini della televisione, con l’impatto della diretta, fissano questi sbarchi solo alla loro valenza tragica e tutto finisce lì. Con la morte di alcuni, molti, troppi certo. Ma di chi sopravvive non sappiamo spesso più nulla. Eppure dietro ogni storia di un migrante c’è un mondo intero di insospettabile ricchezza che non viene quasi mai a galla. O troppo poco, giusto per essere buoni verso l’informazione. La notizia è che il regista di “Va’ pensiero” Dagmawi Yimer, 36 anni, è un rifugiato dall’Etiopia che ha lasciato il suo paese in seguito ai gravi disordini post elettorali del 2005 che portarono all’uccisione di centinaia di giovani. Sette anni fa dopo un lungo viaggio attraverso il deserto libico e il Mediterraneo fu salvato dalla Marina italiana insieme ad altre trenta persone nel mare tra la Libia e Lampedusa. Sì, a Lampedusa. In questi anni ha partecipato a vari laboratori di video e ha realizzato insieme ad altri migranti il film “Il deserto e il mare”, il documentario “Come un uomo sulla terra” con Andrea Segre e Riccardo Biadene e “Soltanto il mare”, infine ciò che ha prodotto è ora sotto gli occhi di tutti. Dagmawi Yimer ha fatto perno sulla sua vecchia identità e non l’ha abbandonata per la nuova, anzi ha avuto il coraggio di raccontare ciò che era inraccontabile, ciò che solo a ricordarlo lascia attoniti. Facile parlare di razzismo, ancor più facile non sentirsi razzisti, persino essere involontariamente razzisti a volte, più difficile invece è entrare nel magma perverso del razzismo cercando di ricavarne una consapevolezza e soprattutto la portata di desertificazione umana e sociale che l’odio razzista lascia dietro di sè.

Ma come ha fatto Dagmawi Ymer a trovare i fondi per finanziare la sua opera e produrre questo documentario? Grazie alla collaborazione di due Associazioni che colmano un vuoto italiano e sostengono finalmente il cinema dei migranti: l’Archivio delle Memorie Migranti, nato a Roma nel 2008 all’interno di una scuola per rifugiati e richiedenti asilo, che promuove laboratori di video e la produzione di documentari e cortometraggi, e il Premio Gianandrea Mutti, creato da Officina Cinema Sud-Est in collaborazione con la Cineteca di Bologna. Dagmawy ha vinto questo premio nel 2011.

In breve i fatti che racconta il documentario. Il 13 dicembre 2011 a Firenze un militante pistoiese di estrema destra uccide due immigrati senegalesi Sam Modu, 40 anni, e Diop Mor, 54 anni, che lavoravano alle bancarelle di piazza Dalmazia e ferisce alla spina dorsale l’amico Moustapha Dieng. Poi corre in un’altra piazza di Firenze, a San Lorenzo, e spara contro un altro gruppo di venditori ambulanti anche loro senegalesi, rincorrendoli e ferendone altri due, Mor Sougou e Cheik Mbeng si sono salvati grazie alla corsa che hanno fatto. Va detto che, dopo uno scontro a fuoco con la polizia, l’uomo si uccise. L’Italia era sotto choc. I media ricostruiscono nel dettaglio le attività eversive dell’assassino, ma non dicono quasi nulla delle vittime. Come spesso accade. Le vittime, i vu’ cumprà, anche da morti sono trasparenti. Niente nomi, niente storia.

Ancora oggi i ragazzi feriti non hanno potuto riprendere il lavoro e sono impegnati nella riabilitazione. Nel 2012 ricevono la cittadinanza italiana, ma dei tre Moustapha Diengh ha la peggio e perde l’uso delle gambe ed è ricoverato in una casa specializzata per disabili gravi. Ciò che la cronaca aveva perduto nella sua corsa folle all’informazione di parte ce lo racconta oggi il regista, dando un volto e soprattutto una storia sociale e umana alle vittime, una identità a Mor Sougou e Cheik Mbeng, i due senegalesi sopravissuti ma con danni permanenti e una paura dentro che chissà se mai riusciranno a cancellare (uno di loro anche l’altro giorno è stato sottoposto ad una operazione). Sono passati poco più di due anni ed ecco “In Va’ Pensiero” il ricordo, le parole di Mor Sougou e Cheik Mbeng incisive, scavate nella roccia, la paura di allora e quella che resiste ancora oggi. I due senegalesi raccontano lentamente e con umiltà, con una dignità straordinaria, li vediamo ora nella loro vita quotidiana, nel loro ambiente, con i figli. Con le difficoltà del recupero. La fisioterapia, i dolori, la necessità di tornare a una vita normale. Non c’è alcuna traccia di astio nelle loro parole, non c’è odio, né desiderio di vendetta. Fa quasi male questa umiltà e certo sembra non appartenere al mondo occidentale. Vorremmo che urlassero e gridassero la loro rabbia. Ma non c’è rabbia. Questa cultura viene da lontano e può insegnarci molto. Ecco un altro motivo per vedere il documentario.

Il regista – come ha sottolineato all’Anteo da Maria Nadotti che ha introdotto il documentario – sa fare cinema; grazie anche all’aiuto di Lizi Gelber per il montaggio (già produttore associato di Sacro Gra) riesce a mantenere un grande rispetto degli intervistati e delle loro parole, lascia i tempi lenti. Parole pesanti, parole sentite e parole che lasciano attoniti. Abbiamo scordato di dire che le storie di “Va’ Pensiero” sono raccontate e sottolineate da una voce di un griot, come si usa in molte parti dell’Africa è il cantore delle storie degli antenati, che si chiama Mohamed Ba, 50 anni, senegalese di origini, attore, educatore e mediatore culturale, anche lui vittima nel 2009 quando era già residente da 14 anni, di un attentato razzista, accoltellato alla fermata di un autobus nel centro di Milano. Ba gira le scuole e racconta chi sono gli africani, quale è la loro nobile storia antica. Ma dopo l’attentato ha dovuto fare i conti con qualcosa di difficile da capire e ancor più accettare e da raccontare. Il suo grande amore per Milano ha dovuto trasformarsi. Ba con le sue parole rende ancora più toccante il dolore delle vittime degli attentati. L’autore “Io venditore di elefanti” Pap Khouma, presentando il documentario all’Anteo, ha anche sottolineato il tema dello “Ius soli”. Difficile accettare che bambini nati qui in Italia che parlano italiano, come ogni altro bambino italiano, non possano avere la cittadinanza, ha detto. Razzismo. Discriminazioni. O “Imbarazzismi” di vita, come ha raccontato con grande spirito e ironia nel suo libro lo scrittore e medico Kossi A Komla-Ebri. Solo la consapevolezza della ricchezza sociale e culturale che porta con sé la diversità di origini ci può allontanare da questo insano buco nero che rifiuta l’altro.

http://www.paolapastacaldi.it/document.php?DocumentID=809

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